Oxford Dictionary nomina “rage bait” parola dell’anno: il fenomeno dei contenuti online provocatori

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2 Dicembre 2025

Roma, 2 dicembre 2025 – Si chiama “rage bait” ed è diventata una delle strategie più diffuse nel mondo dei contenuti online, almeno secondo diversi studi recenti. Il termine, che ormai usano sempre più spesso analisti e giornalisti, indica quei post o video pensati apposta per scatenare rabbia tra gli utenti della rete. Negli ultimi anni questa dinamica ha preso piede anche in Italia, influenzando in modo concreto il dibattito pubblico e le interazioni digitali.

Cos’è il rage bait e perché funziona

Il meccanismo dietro il rage bait è semplice ma potente: si pubblicano contenuti dal tono acceso, spesso molto polarizzante, con l’obiettivo di provocare reazioni emotive forti — soprattutto ira o indignazione. Un rapporto dell’Università di Milano-Bicocca, uscito a ottobre, spiega che questi contenuti raccolgono in media il 60% di interazioni in più rispetto ai post più neutri. Perché? Gli esperti di psicologia digitale spiegano che la rabbia online spinge le persone a condividere, commentare e rilanciare più velocemente.

«La viralità premia le emozioni negative», ha detto la ricercatrice Giulia Leonardi, esperta di comunicazione digitale. A una conferenza a Torino, lo scorso settembre, Leonardi ha sottolineato come i post che provocano indignazione «scatenano veri dibattiti, spesso alimentati da account che cercano visibilità o engagement».

Social network e algoritmi: un circolo vizioso

Gli analisti di DataMediaHub, che monitorano le tendenze social in Italia, spiegano che gli algoritmi di piattaforme come Facebook, X (ex Twitter) e Instagram favoriscono proprio i contenuti che fanno discutere. Premiano chi riesce a far crescere il traffico — anche se questo significa esasperare i toni. «Il rage bait viene promosso perché tiene le persone incollate alle piattaforme», spiegano da DataMediaHub.

I dati raccolti tra gennaio e novembre 2025 mostrano un aumento del 28% delle conversazioni digitali caratterizzate da toni polemici. Numeri evidenti anche nelle cronache: basti pensare ai video provocatori sulla gestione dei rifiuti a Roma — pubblicati lo scorso ottobre — che hanno raccolto migliaia di commenti infuocati in poche ore.

Effetti sul dibattito pubblico e sui comportamenti

Non è solo questione di numeri. La diffusione del rage bait ha un impatto reale sulla qualità del confronto pubblico. Una ricerca del Centro Studi Demopolis mette in luce come la presenza massiccia di contenuti studiati per indignare «alimenti la polarizzazione e riduca la voglia di ascoltare davvero l’altro». Ne risentono soprattutto i temi politici o sociali: «Quando un post è pensato per far arrabbiare — ha spiegato Pietro Vento, direttore del centro — la conversazione si incattivisce molto rapidamente».

Negli ultimi mesi sono emersi anche casi di campagne coordinate che hanno sfruttato proprio questo meccanismo per influenzare opinioni su temi come sicurezza urbana o immigrazione. Solo a ottobre, secondo i dati Agcom, sono stati segnalati oltre 200 casi sospetti su Facebook e X.

Come riconoscere il rage bait

Individuare i contenuti da rage bait non è sempre semplice. Spesso si tratta di frasi volutamente ambigue, foto messe fuori contesto o titoli esagerati. Gli esperti consigliano di fare attenzione a post che lanciano domande provocatorie («Sei d’accordo?»), usano maiuscole o parole forti («Scandalo», «Vergogna», «Nessuno ne parla!»), o cercano subito di spingere i lettori a schierarsi.

Il consiglio degli specialisti è quello di prendersi qualche secondo prima di reagire. «La rabbia digitale si trasmette facilmente», ha spiegato Luca Cerretti, sociologo dell’Università di Bologna. Solo così si può capire se un contenuto merita davvero attenzione oppure è stato costruito apposta per dividere.

Possibili soluzioni e prospettive future

Per limitare il fenomeno, alcune piattaforme stanno provando filtri per ridurre la visibilità dei post più aggressivi. In Italia l’Agcom ha avviato tavoli tecnici con i principali social network per tenere sotto controllo le strategie che amplificano questi contenuti accesi. Gli esperti invitano gli utenti a segnalare i casi sospetti e chiedono alle redazioni giornalistiche di verificare sempre fonti e contesto prima di rilanciare.

Secondo molti osservatori il fenomeno del rage bait non sparirà presto dalla vita online. L’unica vera difesa resta la consapevolezza: leggere con calma, riflettere — poi reagire. Come ha ricordato la stessa Leonardi durante il convegno milanese: «Sui social la rabbia può essere manovrata. Sta a noi decidere se seguirla o fermarci».

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